Campi Colti
Agricoltori produttori e consumattori per l'autodeterminazione alimentare
LA VERITA’ SULL’AGRICOLTURA NELLA PIANA
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LA VERITA' SULL'AGRICOLTURA NELLA PIANA

Lasciate ogni speranza…

o disponetevi a cambiare strada

Quante bugie ancora? Quanti imbrogli? Quante speculazioni e quante vittime…?

L’agricoltura della piana di Gioia Tauro è un morto imbalsamato male. E a niente servono imbellettamenti e profumi volti a nasconderne le cancrene e i miasmi. Ancor meno le cure invocate per un paziente già deceduto.

Non servono a niente e a nessuno, se non a chi li avanza in proclami altisonanti quanto patetici.

COLDIRETTI E COCA COLA

Uno su tutti: l’appello di Coldiretti, per bocca del suo presidente regionale Pietro Molinaro, affinché la Coca Cola usi le arance di Rosarno per la produzione dei succhi confezionati per l’EXPO Milano 2015. Risibili quegli articolisti che parlano di sfida a fronte di dichiarazioni che hanno il sapore di una questua.

Il rappresentante della più grande organizzazione dei contadini Calabresi si rivolge alla multinazionale che più di tutte ha approfittato delle storture imposte all’agricoltura pianigiana dall’intreccio tra gli interessi della grande industria e quelli delle lobbies locali, dal convergere tra le politiche pubbliche – nazionali ed europee – e le corruttele locali, tra le arance di cartone che arricchivano trafficanti e mafiosi e le arance a costo zero che andavano a garantire i superprofitti delle multinazionali dei soft drinks…

Come se questo non fosse stato e come se non ci fosse stato quello schiaffo sferzato qualche anno fa dalla multinazionale al popolo della piana, rispondendo alle denunce dell’Ecologist con la chiusura dei canali d’approvvigionamento sul territorio… con l’abbandono di Rosarno… come se non si sapesse l’ipocrisia di chi oggi si vale dell’internazionalizzazione dei mercati e quindi non ha più bisogno dei vecchi assetti di approvvigionamento della materia prima (appunto, si sa, il succo brasiliano che passa per il porto di Gioia…).

Come se tutto ciò non fosse e non fosse mai stato, come se la filiera del succo concentrato non avesse condannato la piana a una produzione di bassissima qualità e scarsa redditività, che aveva senso economico per le famiglie solo al tempo dei foraggi pubblici, e reso un popolo e un territorio dipendenti e soggiogati, incapaci di progettualità e sottoposti al giogo di padrini politici e padroni economici… Pietro Molinaro ha il coraggio di sbandierare come una cura lo stesso male che ha condannato la nostra terra e implorare il carnefice di sempre a somministrare la “terapia”. Per usare una metafora: il contadinato della piana è un condannato a morte e l’industria del succo la sua sedia elettrica, mentre i rappresentanti come Molinaro altrettanti secondini che lo accompagnano all’ineluttabile destino. Ma è davvero così ineluttabile questo destino? O, per tornare alla metafora iniziale, non sarà che si tratti di morte apparente e che per risvegliare il paziente e impedire l’epilogo fatale si debbano cacciare i cattivi terapeuti?

Certo stupiscono anche le benintenzionate reazioni dei sindacati e in particolare della CGIL, che plaude all’iniziativa della Coldiretti, al contempo richiamando però sulla necessità di impegni che virino verso una riconversione nel senso dell’agricoltura di qualità e la tutela dei lavoratori.

Ci domandiamo se il sindacato abbia difficoltà con l’aritmetica. Al di là dei buoni propositi, la normativa che prevede l’innalzamento della percentuale di succo dal 12 al 20 % non dice nulla sul prezzo della materia prima. E quindi tutti i trionfalismi legati a quel “risultato” stridono con una realtà nella quale i meccanismi di speculazione e sfruttamento restano invariati e anzi avallati dalla nuova normativa che rischia di dare fiato a una filiera perversa, oltre che moribonda. Senza contare poi l’assoluta irrilevanza della posizione europea nel mercato del succo concentrato (1% circa…)

Come si può plaudire a chi vorrebbe rinvigorire questa filiera e contemporaneamente invitarlo a un ragionamento su riconversione e agricoltura di qualità?

Anche volendo prendere in sé la proposta di un “Accordo Quadro che abbia come presupposto l’innovazione, la modernizzazione e la riconversione dell’agricoltura della Piana”, al di là della contraddizione summenzionata, è lecito domandarsi: quale qualità? Qualità di cosa, qualità per chi?

LA GUERRA DELLE ARANCE

Si sa che il prodotto di qualità per l’agrumicoltura della piana sono le clementine, per altro IGP, e i mandarini, usati per le essenze. Inutile soffermarsi sul crollo del prezzo di quest’anno, frana su frana, tra difficoltà meteorologico/climatiche e di mercato (embargo della Russia e sovrapposizione con altri paesi esportatori…). Tutte cose arcinote. Forse meno noto è che anche le realtà più virtuose di altre zone produttive della regione, come la Sibaritide – che ha impianti ben più moderni e un orientamento al mercato più efficace – o di altre nazioni, come la Spagna del Paese Valenziano – che presenta un sistema vastissimo di cooperative – versano in crisi e presentano dinamiche di sfruttamento del produttore e supersfruttamento a ricasco della manodopera che, se non identiche quantitativamente, sono tuttavia qualitativamente analoghe a quelle che si realizzano nella piana. La Spagna ci fa paura ma anche l’agrumicoltura della Spagna è in crisi. Il mondo non sta fermo e ogni anno tra i paesi del Mediterraneo aumentano i nuovi produttori di clementine, come di olive, che invadono i mercati comunitari vece anche gli accordi di partenariato… e con lucro di grosse multinazionali, anche europee, che spesso vanno ad investire in quei paesi. Guardare all’agricoltura di un territorio senza considerarla in questo contesto, oggi come oggi, è miope nel migliore dei casi, disonesto nel peggiore.

La verità è una: il mercato globale è sempre più integrato e i flussi produttivi sempre più internazionalizzati, in questo quadro parlare di qualità significa parlare di competizione, quindi volersi imporre in un mercato che chiede costi sempre più bassi per un prodotto sempre più standardizzato, ancorché suddiviso in fasce di consumo. Significa in parole povere tuffarsi nell’arena dei gladiatori dove solo i più forti, che poi vuol dire i più grandi, che possono investire sui processi, sui mezzi, sulla razionalizzazione dei costi, e possono valersi delle economie di scala, vincono… e gli altri soccombono. È questa la condizione di quanti producono la stessa cosa per lo stesso mercato, nel quale se uno vince per forza ci dev’essere qualcun altro che perde.

E qui s’affaccia un altro interrogativo: chi vince e chi perde in questo gioco al massacro?

I numeri del censimento dicono che in Calabria, come in Italia, anche se meno, diminuiscono le aziende (per la provincia di Reggio -19%), aumenta la dimensione media e diminuisce la superficie agricola utilizzata. Meno che nella provincia di Reggio! Qui la superficie (SAU), aumenta di 10,4 punti (come a Crotone, dove si arriva addirittura a 13,7), e questi sono dati già vecchi!

Un avvitamento nel segno della concentrazione avallato dagli aiuti disaccoppiati della PAC, che come noto premiano la superficie. Le aziende che nella distribuzione degli aiuti comunitari ricevono più di 100.000 euro annui rappresentano appena lo 0,2% del totale, ma ricevono il 15% degli aiuti totali, con un aiuto medio annuo di poco meno di 200.000 euro (dati da aggiornare sulla nuova stagione PAC 2014-2020…). Questo vuol dire che c’è un processo di galoppante concentrazione in atto, il profilarsi di un nuovo latifondo benedetto dallo stato. Certo, si tratta di ragionamenti che andranno rivisti con le modifiche della nuova PAC, ma la tendenza e la sostanza non cambiano.

Manco a dirlo, questo “dinamismo del mercato fondiario” (€ 45.000 per ha) interessa i terreni ulivetati e agrumetati (prima e seconda coltura regionale in termini di valore aggiunto). E sono sempre questi due settori, olio e ulivo (50% dell’agricoltura calabrese in termini di valore), che fatte salve le oscillazioni congiunturali post crisi (dopo i picchi tra 2004 e 2005 soprattutto, l’olivicoltura ha conosciuto un decremento che tuttavia la tiene sul decennale al livello dell’agrumicoltura) sono nei dieci anni considerati dal censimento in tendenziale, ancorché moderata, crescita in termini di prodotto e valore. Il valore aggiunto medio per azienda agricolaè pari € 51.200 circa (ma le medie statistiche nascondono la forbice tra piccoli e grandi che sta sotto). Al primo posto con circa 57.000 € troviamo il polo delle aziende “Specializzate nelle coltivazioni permanenti”, tra cui spiccano appunto ulivo e agrumi. Tutto ciò ovviamente fatto salvo il bagno di sangue di quest’anno per l’olivicoltura e gli ultimi due anni di tracolli per l’agrumicoltura, tra ceneri laviche e quant’altro.

Esiste dunque un’agricoltura che vince nella piana, ed è l’agricoltura dei gestori delle OP (Organizzazione dei Produttori), dei grossi magazzini di lavorazione, che spesso sono titolari di fondi consistenti e in ogni caso controllano il mercato, gestendo in oligopolio l’accesso ai canali della Grande Distribuzione Organizzata. Sono questi che rastrellano il prodotto a basso costo e fanno incetta di finanziamenti pubblici. I famosi premi alla produzione riconosciuti dalla UE a queste “aggregazioni”. Sono loro che crescono. Sono loro il braccio operativo della Grande Distribuzione Organizzata, che ha esternalizzato le funzioni di approvvigionamento. Il futuro è il loro.

A loro sono dovuti i risultati,celebrati da politici e tromboni, che fanno dell’agricoltura il fattore di traino dell’economia calabrese, l’unico settore che resiste, anche in termini di occupati. D’altronde è un dato nazionale, quello dell’agricoltura che cresce (al 2° trimestre 2014 + 1,8 e + 5,6 per l’occupazione! Un dato trainato dal centrosud…). Ci sarebbe da domandarsi, certo, quanto sia il dato reale di questa crescita, in termini di occupati, considerata l’incidenza del lavoro nero, che in agricoltura in genere si attesta al 32%.Considerate le condizioni dei braccianti di Rosarno e l’utilità della loro sovrappopolazione ai fini di un deprezzamento della manodopera, se questo è il modo in cui l’agricoltura dà occupazione qualcuno potrebbe pensare che, in certi casi, molti, troppi, è meglio chiedere l’elemosina.

Ci domandiamo allora: se qualcuno che ci guadagna c’è, come evidentemente c’è, ed evidentemente in media non retribuisce regolarmente la manodopera, perché debbono essere i lavoratori a pagare il disagio di condizioni alloggiative indegne? Perché deve essere il territorio tutto a pagare in termini di disagio crescente e degrado conseguente? Non sarebbe più logico imputare a queste aziende, ci riferiamo ovviamente a quelle medio-grandi, il costo sociale di residenza della manodopera che a loro consente tali margini? E con i fondi conseguenti praticare politiche virtuose di accoglienza/residenza della manodopera? Senza segregazioni e scandali di stato, come la tendopoli di San Ferdinando, si potrebbero usare gli stessi fondi pubblici, sprecati nei campi, in aggiunta a questi per recuperare alloggi degni nei centri abitati e istituire servizi di mobilità che evitino le tragedie dei morti in bici… si creerebbe circuito economico e si arginerebbero disagio e degrado!

Ma questo non è possibile e non è un caso che i modelli d’”accoglienza” si uniformino un po’ ovunque nel Mediterraneo, corrispondentemente con l’organizzazione del lavoro in agricoltura, sempre associata alle politiche migratorie che generano clandestinità e quindi ricattabilità…

GRANDE ESTORSIONE ORGANIZZATA

Ecco, la ricattabilità. È questa la parola chiave, l’architrave di questo sistema che poggia sempre più sul saccheggio dei territori, sullo strozzamento degli agricoltori, sulla servitù dei lavoratori.

D’altronde non c’è da inventarsi storie, i numeri non lasciano scampo:

Dei 22 euro che dovrebbero arrivare in tasca al produttore agricolo per ogni 100 spesi dai consumatori, oltre 19 vanno a coprire salari (7,2 euro) e ammortamenti (11,9), limitando così a 2,9 euro il guadagno, al netto dei contributi PAC; erano oltre 4 euro nel 2008, con una riduzione del 30% in cinque anni.

Nel caso dei prodotti trasformati, dei 100 euro spesi dal consumatore finale, 8,7 sono destinati a prodotti finiti importati, 16,5 a beni e servizi intermedi utilizzati dai vari attori della filiera, 24 euro al commercio e trasporto, poco più di 10 euro all’industria alimentare (che ne paga 5,3 in salari) e 5 euro all’agricoltore che fornisce le materie prime per la trasformazione. Anche in questo caso, dedotti i salari (1,6 euro) e gli ammortamenti, il risultato netto dell’agricoltore si riduce sostanzialmente: siamo a 70 centesimi (era 1,1 euro nel 2008, con un calo di oltre un terzo), mentre al produttore industriale restano 2 euro (2,4 nel 2008).

E se queste sono medie nazionali, sappiamo bene quanto sia peggiorativa la loro contestualizzazione rispetto allo scenario calabrese e pianigiano in particolare. Con questi margini, i poveri sfruttano i più poveri e qualcuno arricchisce riempiendo le dispense di milioni di briciole.

Sono questi i circuiti di espropriazione del valore che, attraverso i vari passaggi parassitari dell’intermediazione commerciale, fanno la forza delle grandi catene della Grande Distribuzione e della Distribuzione Organizzata. In testa a tutte, in Italia, Coop e Conad, entrambe realtà della cooperazione e definite pertanto Distribuzione Organizzata (i piccoli che messi insieme son diventati grandi ed ora schiacciano gli altri piccoli). Seguite da Esselunga, che la fa da padrone sul fresco nella Grande Distribuzione in Italia. Seguono i vari altri marchi che incontriamo tutti: Auchan, Carrefour, Despar…

Sono questi i padroni del cibo che si daranno convegno a Milano per Expo 2015, con pari loro come la Monsanto, che impera sulle sementi e i pesticidi, o la Coca Cola, appunto, per citare un simbolo mondiale dell’industria alimentare.

E d’altronde è il mercato, baby! Inutile pensare, auspicare, immaginare…

Se l’agricoltura Calabrese vuole un futuro è a costoro che si deve inchinare. Lo confermano i soldi spesi dalla Regione Calabria (quanti? presi dal risicatissimo fondo per l’agricoltura?) per la partecipazione della rappresentanza calabrese a EXPO 2015.

A costoro si deve agganciare quell’agroalimentare calabrese che cresce del 4,1 %. E vale anche per i prodotti trasformati… un circuito che ha visto la falcidia di aziende negli anni dopo il crack del 2008 e se oggi vede una nuova ondata di neonate imprese condotte da giovani è solo in virtù di finanziamenti che non danno garanzia alcuna di sopravvivenza. Intanto i numeri dicono che la Calabria nuota male in questo mare, e le sue esportazioni hanno un calo del 12,8 % (fonte Unindustria).

Lo vedremo domani quante di queste aziende di trasformazione sopravviveranno, che spazio sapranno conquistarsi o mantenersi nel mercato nazionale e internazionale dopo che sarà siglato il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti!

Come spiega Monica Di Sisto, in un recente documento per l’organizzazione Fair Watch: “Il 26 settembre scorsol’Organizzazione Mondiale del Commercio (World trade organization – Wto) ha dovuto rivedere le proprie stime di crescita degli scambi per il 2014, ridimensionandole al 3,1% (rispetto alla previsione del 4,7% fatta in aprile)e tagliare la previsione per il 2015 al 4,0% dal 5,3%. Siamo lontani dalle percentuali di crescita a due cifre degli anni Novanta, ma il motore degli scambi è in Asia (+4,2% nel 2014), al secondo posto ci sono gli Usa (+2,8%), mentrel’Europa produce poco, consuma meno e commercia ancor meno: le esportazioni UE crescono appena dell’1,2%, mentre le importazioni si fissano all’1,9%. Quel che ancora gira è monopolizzato dalle grandi filiere globali, all’interno delle quali gira oltre l’80% del commercio internazionale” (Monica Di Sisto – Fair Watch “Contro il TTIP, con i piedi per terra”). Questa situazione si aggraverà col trattato, che vedrà i nostri mercati invasi dai prodotti agroalimentari made in USA.

Quello che succederà è che i grossi diventeranno ancora più grossi man mano che i piccoli muoiono. È questo lo scenario che dobbiamo tenere a riferimento quando i politici locali ci ammanniscono le manfrine sul brand territoriale e le eccellenze regionali. Con l’entrata in vigore del trattato, secondo le previsioni, al 2027 l’Italia, con un 13,6% raggiunto nell’interscambio di frutta e vegetali, perderebbe un 2,1% di valore aggiunto. E lo stesso discorso vale per i trasformati. Come domanda Monica Di Sisto, “Chi in Europa, vedendosi esportare un prosciutto italian style a prezzo più che accessibile, visto che il trattato prevede una reciprocità negli scambi, starà a fare il difficile e rifiuterà sdegnato il prosciutto canadese accaparrandosi, al contrario, la nostrana unicità costi quel che costi?”. Come evolveranno dopo questo trattato le abitudini di consumo degli italiani che oggi secondo le statistiche invadono sempre più i discount?

COME SI NUTRE IL PIANETA?

Altro che specificità regionali e tracciabilità. Dal 13 dicembre 2014 è entrata in vigore la nuova legislazione europea che con il Regolamento n° 1169/2011 rende non obbligatorio per i“prodotti a marchio” della grande distribuzione, indicare sull’etichetta il luogo di produzione e il nome dell’azienda produttrice. Si tratta di quei prodotti a marchio del distributore, la cosiddetta “marca commerciale”, di cui nel Rapporto 2014 della CONAD viene vantata una quota di mercato che ha raggiunto il 17%.

Già oggi questa tipicità italiana è fatta di produzioni che importano materia agricola prima per esportare, in misura crescente, prodotti del Made in Italy alimentari.

E la Calabria non fa la differenza. Secondo l’istat il settore agroalimentare rappresenta nel 2011 il 42% delle importazioni totali della regione e mostra un trend di crescita con un incremento del 3% circa rispetto all’anno precedente. In buona misura, il risultato è da attribuirsi all’industria alimentare e delle bevande (+5,8%).

Eccolo il made in sud! Vale per il pomodoro come per il grasso di maiale fino all’olio d’oliva. Quanti salumi calabresi sono fatti con maiali esteri! Quanto peperoncino importiamo in Calabria dall’ASIA! È questa la competitività delle eccellenze nel mercato mondiale! Una competitività tutta commerciale che non lascia molto sui territori in termini di occupazione e ancora meno in termini di indotto… ma l’abbiamo già detto: è il mercato baby. Nella regione del maiale, le carni suine sono al secondo posto delle importazioni regionali con il 10,5 % del totale.

Non sappiamo davvero cos’abbia a che vedere tutto questo con quella Calabria di piccolissimi agricoltori che costituisce la regione più agricola d’Italia, quella con la più alta incidenza di minifondi, col tasso di famiglie che traggono reddito dall’agricoltura doppio rispetto alla media nazionale e con il record del13,6 % in agricoltura degli occupati totali in regione, 9% circa degli occupati agricoli italiani. (Al 2011 85.000 unità; tra il 2010 e il 2011 gli occupati agricoli sono aumentati del 3,8%; +3.100 unità). Fatte salve ovviamente le truffe all’inps, la cui incidenza ad oggi nessuno si è preso la briga di valutare scientificamente.

Questo mondo non ha molto in comune con le aziende dell’agroalimentare calabrese che si affacciano al mercato globale a partire da un dato di sostanziale irrilevanza della Calabria nella bilancia commerciale nazionale.

Questo mondo è fatto di gente che non vive più di agricoltura, in buona misura, per il semplice fatto che è impossibile. È fatto in buona parte di fasce deboli della popolazione, che nell’agricoltura trovano ormai solo un’integrazione (quando va bene) di altri redditi (quando ce li hanno). Nella regione più agricola d’Italia, che è poi anche la più povera d’Italia per reddito procapite, non si vive d’agricoltura.

Andando a confrontare l’incidenza dei settori sull’occupazione, vediamo che considerando le unità lavorative per settore l’agricoltura rappresenta il 15% sul totale regionale, rispetto al16% dell’industria e al 70% dei servizi. E lo stesso ragionamento si può fare in termini di valore aggiunto.

Nella regione in cui il PIL s’è ridotto del 5%, secondo lo SVIMEZ, e il tasso di occupazione in età da lavoro, al 39%, è il più basso del meridione e quello di disoccupazione, secondo Unindustria, vola al 25%nel 2013 (- 7% gli occupati complessivi e – 14,5 % nella manifattura), questa agricoltura avrà molto da trainare se, come vogliono i proclami trionfalistici dei suoi alfieri, deve salvare la regione dal baratro. Tanto più che dovrà compensare la falcidia di posti che si produrrà nel terziario, tra patti di stabilità e razionalizzazione di spesa della pubblica amministrazione.

Con buona pace di eccellenze e tipicità, in un’Italia divisa in due anche nei supermercati, dovelo scontrino medio del nord-est è ancora del 50 per cento superiore a quello del sud, le famiglie calabresi sono tra quelle che hanno ridotto più di tutte la spesa familiare a fronte della crisi, seguite solo da quelle lucane e siciliane. Tuttavia, se il tasso di povertà si assesta sul 32,4 % al 2013 la nostra resta tra le 3 regioni con la quota più alta di spese alimentari, con la media di 436 € mensili. Carne, pane e cereali e patate, frutta e ortaggi coprono il 60% della spesa alimentare.

Ci domandiamo quali risposte dia questa agricoltura “trainante” a queste persone.

Per il momento sappiamo che la sovranità alimentare è una condizione sempre più lontana nella nostra regione. Sempre secondo il censimento, nel caso degli orti familiari calabresi, si registrano variazioni negative e di entità significativa (aziende -56% e superficie investita -50%), in Italia invece la flessione è pari a -39%, per il numero di aziende, e a -19%, per la superficie.

Ancora, in Calabria l’incidenza di aziende con allevamenti è scesa nel 2010 al 7,4% dal 12,5% nel 2000, e ciò la identifica tra le regioni con la più bassa incidenza di aziende zootecniche.

Il censimento del 2010 ha rilevato nella regione 10.189 aziende zootecniche, un dato più che dimezzato rispetto al 2000.

Infine, sempre per restare sulle principali voci di spesa, passando al pane, quindi al grano con cui viene fatto, in riferimento ai seminativi il numero di aziende varia in modo analogo (Calabria -37%, Italia -35%), a differenza di quanto avviene per la superficie coltivata (Calabria -12% e Italia -4%).

Questo vuol dire che la regione più agricola d’Italia è sempre più lontana dal produrre quello che mangia (lo dice la stessa Coldiretti, solo il 35 %), con risultati ovvi di impoverimento del reddito diretto e indiretto e un’emorragia di risorse a tutto vantaggio di circuiti commerciali, più o meno grandi, alieni al territorio. Ciò è avallato dal fatto che gli esercizi commerciali al dettaglio specializzati e non specializzati nel settore alimentari e bevande sono pari a 4,8 esercizi per mille abitanti, consistenza superiore alla media italiana (3,6), e che la Calabria è, al 2011, sesta nella classifica delle regioni nel rapporto tra metratura degli esercizi della GDO e popolazione (319,6 mq/1000 ab.), con tutte le implicazioni immaginabili se si considera la diminuzione della superficie agricola totale (SAT – 16,4 % al 2011).

2 + 2?

Non capiamo perché sia così difficile domandarsi:

cosa succederebbe se tutta la carne consumata in regione fosse prodotta in regione, in allevamenti che usano mangimi prodotti localmente, o possibilmente allo stato brado…?

E se i grani per fare la farina fossero coltivati qui, recuperando le qualità antiche così tanto più ricche dal punto di vista nutritivo?

E se ogni famiglia avesse un orto e per il resto si rivolgesse alle produzioni locali?

Cosa succederebbe se questi soldi, che sono i nostri, fossero spesi per alimentare l’economia locale?

Cosa succederebbe se anche le industrie di trasformazione fossero locali, la pasta, i conservati, prodotti qui…

Se tornare all’agricoltura non significasse trafile burocratiche per corridoi a caccia di finanziamenti e poi umilianti contrattazioni con i commercianti…

Cosa succederebbe se si facesse davvero agricoltura per dare da mangiare prima di tutto a se stessi e poi a quelli che ci stanno intorno…

Quanti di più sarebbero i contadini e le contadine, quante piccole industrie si creerebbero, quanto più integro sarebbe il territorio che ci circonda…

E se invece di produrre olio di pessima qualità per l’industria, che lo usa per tagliare e lo compra ai prezzi consentiti dallo sfruttamento, usassimo gli uliveti troppo vecchi eppure così belli come parchi ecologici in cui coltivare i saperi e le arti, tradizionali e non.

Se invece che 15 giorni d’estate in mezzo ad alienanti stabilimenti d’ombrelloni, i turisti potessero venire tutto l’anno in posti come questi e ancora, appunto, nei borghi e nelle campagne, a mangiare cose genuine e conoscere luoghi e persone invece di rinchiudersi nei villaggi dove noi locali ci facciamo raccomandare per poterci far sfruttare.

Quanto meno spopolati i paesi se animati dai commerci locali e dotati da infrastrutture e servizi quali la manutenzione e la mobilità, l’istruzione e la sanità… e quanta gente a lavorare, anche solo come si fa in Messico del Chiapas, dove non ci sono molte macchine e trovi un sacco di pulmini che portano contadini indios dai mercati di città fin nella selva Lacandona.

E quanto più vivibile sarebbe la vita qui, se potessimo decidere come vengono spesi i soldi pubblici.

Quanto spenderemmo di meno se potessimo decidere di non spendere più soldi per l’acqua minerale in bottiglia a sostituire quella dei rubinetti che potabile non è e potessimo usare gli stessi soldi, messi in comune, per recuperare vecchie fonti…

E se l’edilizia non fosse più distruttiva e degradante ma di manutenzione, forse non sarebbe più in crisi, se si dedicasse con l’aiuto pubblico a recuperare i vecchi borghi invece di deturparli.

Quanti posti di lavoroin più ci sarebbero per tutti, in agricoltura e non solo, nelle tante, moltiplicate e piccole unità produttive ad alta intensità di lavoro, per chi è nato qui e per chi ci viene da lontano.

Mentre vagheggiamo questo futuro che potrebbe essere, dobbiamo svegliarci a considerare quello che è. Il paesaggio della piana si sta trasformando ben diversamente, lasciando spazio alla nuova emergente monocoltura del kiwi, di cui l’Italia è secondo produttore mondiale.

In Italia noi non siamo soli, anche se da noi vengono particolarmente buoni, ci sono altre regioni ben più organizzate… il mercato ancora tira e i prezzi tengono, nonostante i costi di produzione aumentino… fino alla prossima crisi, quando il mercato sarà saturo, la Cina – per esempio – imperverserà con la sua produzione a basso costo o la Turchia – altro esempio – lo invaderà con le stesse qualità d’eccellenza che oggi sono appannaggio “nostro” e i prezzi crolleranno. Allora magari i kiwi non marciranno come gli agrumi ma resteranno nei frigo, a consumare inutilmente energia dopo aver stravolto un territorio.

Allora forse la piana di Gioia Tauro sarà pronta ad imparare cosa siano la biodiversità, la sovranità alimentare e l’autodeterminazione territoriale. Ma forse sarà troppo tardi, perché l’ennesima monocoltura e i trattamenti che con essa son sempre connessi avranno impoverito ed avvelenato definitivamente la terra, se non peggio almeno quanto i terribili impianti di incenerimento dei rifiuti e produzione d’energia per combustione che dissemineranno il territorio.

Allora lo spopolamento sarà continuato ai ritmi odierni, e la Zona Economica Speciale attrarrà investimenti dal mondo nelle tre zone industriali, per altri servi che verranno da ogni dove a farsi sfruttare in questa terra di nessuno, come in uno di quegli emirati arabi… allora forse al porto oltre a transitare container si sdoganeranno e spacchetteranno merci, ma non ci sarà un tessuto locale pronto a valorizzare questa come un’occasione, ma solo una residua popolazione di zombie destinata a subirla come l’ennesima speculazione.

CHE FARE?

Ma la storia non si scrive prima di farla. È la vicenda di molti popoli, anche oggi, anche alle periferie del mondo, dimostra che si può cambiare strada e che la conquista dell’autodecisione delle comunità territoriali è possibile e soprattutto benefica. Anche se diminuisce il prodotto interno lordo e le ricchezze dei pochi con esso, aumenta il benessere dei più e recupera la bellezza dei luoghi, la ricchezza delle collettività.

Significa cambiare il modo in cui si produce e si consuma, cambiare il modo in cui si vive e i rapporti sociali. Ma una cosa è certa: per l’altra strada c’è solo il baratro e il risultato è che non si vive affatto e per quel che resta si è condannati all’infelicità.

Non è come cambiare un vestito, certo. Non si può fare dalla sera alla mattina. Ma avendo chiara la meta, si può capire come raggiungerla, quali vie intraprendere per la transizione.

Primo assunto: la monocoltura è un problema, è dove siamo oggi. La diversificazione è la soluzione, il veicolo che deve condurci altrove. Ma la diversificazione è ormai un tormentone, che però non vuol dire per tutti la stessa cosa. Diversificare per il mercato, significa che lo faranno i pochi che possono investire e in un modo deciso dal mercato in base ai suoi bisogni, non ai nostri. Chi li seguirà, se ci riesce e non saranno molti (chi ha per esempio oggi i soldi per convertire gli impianti?), starà sotto di loro come lo sono oggi i piccoli proprietari dei “giardini”. Al contrario, la nostra diversificazione non è di mercato ma democratica e sostenibile. Passa prima per una riduzione delle produzioni a monocoltura, la riduzione della sovrapproduzione.

Il biologico è una ruota, che al contempo ripristina l’integrità dei suoli – e la salute di chi ci vive – e orienta le produzioni alla qualità, diminuendone la quantità.

L’accorciamento delle filiere è un’altra ruota, come tentiamo noi, per esempio, con i gruppi d’acquisto solidali di tutt’Italia.

In questo modo, con la produzione di qualità eticamente realizzata ed eticamente commercializzata, si aumentano i ricavi, per cui si può vendere anche di meno.

L’autorganizzazione è un’altra ruota, per non essere dipendenti da altri e trovare insieme le energie e la forza per tentare quello che uno solo non può.

La pianificazione comune è la quarta ruota, perché questi ricavi magari un po’ aumentati siano investiti, appunto nella diversificazione… per raggiungere la meta.

La cinghia di trasmissione, senza la quale il motore non fa girar le ruote, è una coesione sociale che consenta alla collettività, al contesto, di sostenere questi cambiamenti, di appoggiarli, di parteciparne, cambiando per esempio le abitudini di consumo, organizzandosi per fare la spesa diversamente e privilegiare il territorio, quindi se stessa. Di modo che sempre più gente possa coltivare ortaggi invece di agrumi o kiwi – che tano è inutile – e man mano che aumentano quelli che consumano questi prodotti localmente continuano ad aumentare gli orti (si scrive orti come esempio per semplificare) e via di seguito in un circolo virtuoso. Capiamo chi oggi insegue i mercati impiantando kiwi, ma non è questa la strada…

Il carburante per far muovere il veicolo sono i soldi, che qualcuno guadagnerà in più… e dovrà capire ch’è nel suo stesso interesse metterne una parte in comune e a disposizione dell’interesse di tutti, quindi anche il suo. Servono strutture e queste devono essere cooperative… Ma anche i soldi pubblici, perché si può chiedere come vengono spesi e che siano dati a chi è impegnato in questo processo invece di darli a chi va col mercato – che significa poi sostenere coi nostri soldi il mercato e chi in questo comanda.

L’autista… è ovvio, siamo tutti noi. O la macchina, senza guida, non si muoverà affatto.

Il luogo d’arrivo, lo abbiamo descritto più sopra domandando. Perché non ci si possono fare illusioni: tutti questi dispositivi tamponano le devastazioni in atto ma non sono un’alternativa! Il mercato biologico ed etico messi insieme fanno una nicchia che non sostituirà mai il resto del mercato e può assorbire una parte minima di quello che si produce. Per questo si deve produrre sempre meno di queste cose e chi ci guadagna, che sarà una minoranza, deve mettere una parte dei guadagni a disposizione di tutti, di modo che chi non guadagna con il mercato esterno sia messo in condizione guadagnare con quello interno.

Per questo la pianificazione. Qualcuno produrrà eticamente e biologicamente meno agrumi o olio o kiwi e qualcun altro non li produrrà affatto e dovrà essere aiutato a produrre altro – per esempio ortaggi o grano… qualcun altro aiutato a fare mulini o pastifici per l’uso di questi grani… o laboratori per i trasformati… o qualcun altro aiutato a fare lavori che alimentano tutto questo, come la manutenzione, servizi di logistica e trasporti sostenibili… o ancora smaltimento dei rifiuti, riciclo, e altri lavori utili e non inquinanti… e tutti organizzarci ed aiutarci a vicenda per consumare queste cose e non quelle che ci impone il mercato e che portano i nostri soldi altrove. E quello che resta invenduto organizzarci non per mandarlo al macero ma per aiutare le famiglie in difficoltà…

Il viaggio deve ancora iniziare. Per cominciare a muoverci, o meglio ancora per salire sull’auto, c’è una cosa che si può fare già ora dove ci troviamo:

una battaglia politica contro le grandi catene per imporre il doppio prezzo, con indicazione del prezzo sorgente e, conseguentemente, politiche dei prezzi più eque o un doppio canale: uno a prezzi equi e uno a quelli ordinari, di modo che il consumatore sappia che andando a comprare certi prodotti sostiene lo sfruttamento di coltivatori e braccianti. Le tre catene che nominavamo più sopra, COOP – CONAD – ESSELUNGA, hanno una dimensione poco internazionalizzata e sono molto sensibili agli spostamenti d’opinione dei consumatori italiani… sono una controparte alla portata, per il momento… approfittiamone!

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